Punti di vista: i modelli della memoria, di Arturo Carlo Quintavalle

Arturo Carlo Quintavalle per "Muri di carta, Fotografia e paesaggio dopo le avanguardie" , Electa., 1993



Punti di vista: i modelli della memoria     


(...) Per Francesco Radino la storia è quella del Sessantotto, di Sociologia a Trento, e la professione di fotografo scoperta dopo il rifiuto dell'università e dei suoi modelli. E' singolare come una generazione di intellettuali, una generazione di letterati o sociologi, economisti o giuristi, sia diventata una generazione di fotografi, è singolare e pieno di significati. L'antica professione, il mestiere, la bottega dei fotografi sono finiti, morti lentamente di consunzione nei decenni dopo la guerra, mentre l'università non ha costruito scuole, nota Radino, e dunque luoghi dove studiare la fotografia, la sua storia, le tecniche e quindi le loro ideologie. Così chiunque scopra che la fotografia può essere un modo per raccontare deve scegliersi i propri antenati, deve ricostruirsi una storia. E lo stesso fa appunto Radino, dialogando con altri fotografi, italiani in primo luogo, a cominciare da Ugo Mulas, e scambiando idee e proposte con Gabriele Basilico, quindi scoprendo la cultura europea e quella americana, Atget, Evans, la FSA, che sono come un percorso obbligato, quasi senza eccezioni per i fotografi del nuovo.
Non ho detto del nuovo paesaggio perché Radino non ama i generi e non crede alle specializzazioni, ma piuttosto la scoperta dei diversi possibili racconti, la scoperta della fotografia come luogo delle invenzioni e delle differenze. Radino insomma, e una indagine storica dovrebbe mettere in conto le sue prime ricerche lungo i servizi d'ordine dei cortei, davanti ai cartelloni e agli sbarramenti della polizia, ma dovrebbe anche mettere a fuoco le sue indagini per i libri del T.C.I. che lo hanno molto affinato a un rapporto diretto e anche al racconto del territorio. Perché Radino, e lo si vede nelle sue ricerche, a cominciare da un libro che ne raccoglie alcune, Modus Videndi, Radino ama raccontare, raccontare attraverso immagini però che da sole siano a loro volta come un subracconto, una micronarrazione quasi concentrata. Radino dunque non documenta ma costruisce una storia, la organizza per battute veloci, sottilmente mostra le contraddizioni dentro questa vicenda, siano esse una figura strana, un contrasto fra il troppo grande e il piccolo, o la ambiguità delle macchine che sembrano animali mostruosi o quella degli umani che è come se ritornassero alla natura.
Radino ha sempre un rapporto con la pittura, lo dice lui stesso, attraverso il padre e la madre che erano pittori, e attraverso il nonno scopre nella sua famiglia, nella sua gente, un fotografo che documenta le culture altre, quelle dell'America Latina. Radino ha conosciuto anche Luigi Ghirri ma, anche se ha collaborato con lui, non ha trovato punti di contatto, non ha trovato diretta relazione fra la propria e la altrui ricerca. Per Radino il mondo è denso di eventi, e per esempio quando analizza le macchine, il loro turgore, la loro densità ha il sapore di certe inquadrature di Pabst o di Fritz Lang e il denso nero, e certi passaggi incredibili ottenuti da Radino stesso in stampa, sono davvero da collegare alla mitologia dei metalli e al racconto di documentari come quello di Ruttmann  Acciaio (1933). Insomma matrici cinematografiche che spiegano la narrazione, ma altre volte appena un ironico riferimento, quasi una strizzata d'occhio a Cartier-Bresson e al Surrealismo. In altre foto, a colori, e che qui si illustrano, scopriamo invece il rapporto con la cultura dell'Informale ma senza l'idea della dissoluzione, con dentro semmai un entusiasmo per la materia, per il nuovo dei colori, delle forme, per la macchina come centro pulsante di una crescita positiva, luogo delle origini del mondo.
La strada di Radino è diversa da quella di Luigi Ghirri: per lui non c'è spazio per una sospesa contemplazione, per una attenzione all'intervallo fra critica e racconto, fra partecipazione e distacco, per lui la narrazione è legata alla foto e alla sua struttura e la scrittura fotografica, a sua volta, deve rispondere a una dignità di immagine altissima, perché Radino non manda altri a stampare, ma pretende proprio quelle densità di neri, proprio quelle profondità di campo, quelle taglienti luci. Così non c'è un genere che caratterizza la ricerca di Radino, per lui il viaggio non documenta mai luoghi reali, ma uno spazio mitico dove il magma delle materie, oppure una parete, oppure la notte, oppure le lucide forme delle macchine diventano altro, si trasformano, come in un gioco dell'infanzia dove ogni cosa diventa nostra e, dopo, alla fine, riacquista la propria identità. Le foto di Radino sono quindi un modo per rileggere la realtà come schermo dei desideri, mitologia sognata e ironica dell'infanzia. (...)